di Alex Frosio (Gazzetta dello sport 1/11/2018)
Il direttore tecnico dei diavoli rossi Van Der Haegen spiega come sono passati dal flop del 2000 al bronzo in Russia.
Eden Hazard. Kevin De Bruyne. Dries Mertens. Romelu Lukaku. E poi Carrasco, Meunier, Chadli, Courtois, Praet, Witsel, Batshuayi, il più giovane Tielemans. L’elenco potrebbe proseguire a lungo. Sono tutti i talenti del Belgio, che al Mondiale 2018 in Russia ha ottenuto il miglior piazzamento della sua storia. E che occupa il primo posto nel ranking Fifa, posizione raggiunta per la prima volta nel 2015. Nel 2007, il Belgio era alla posizione numero 71, la peggiore della sua storia. Il punto di non ritorno, per il calcio belga, era arrivato 7 anni prima, all’Europeo organizzato in casa in collaborazione con l’Olanda: i Diavoli Rossi – che proprio diavoli non erano – non superarono nemmeno la fase a gruppi. La federcalcio belga, in collaborazione con il governo, capì che bisognava fare qualcosa. E non è che improvvisamente le donne si siano messe a sfornare talenti destinati al calcio. No: dietro c’è una filosofia di lavoro che nel giro di una generazione ha dato frutti aurei. In un recente podcast dal titolo «Way of Champions», il direttore del settore tecnico della federcalcio belga Kris Van der Haegen l’ha spiegata punto per punto. L’applicazione pratica collima per molti versi con altri esempi – l’Olanda, la Francia, la Germania, per certi versi anche l’Italia – ma sono soprattutto i princìpi ispiratori a colpire. E a spiegare perché siano cresciuti – più che nati – giocatori come Hazard o De Bruyne.
COME IN STRADA. Uno dei punti principali è il giovane calciatore. E’ lui il protagonista, non la squadra o l’allenatore. Con i piccoli bisogna fare ciò che piace a loro, capirne le caratteristiche e adattare il contesto. Da qui, il principio successivo: «I bambini vogliono giocare a modo loro, non come adulti – ha spiegato Van der Haegen – Se metti un bambino su una bici da adulto, ti danno del matto. Ma è ciò che succede di solito nel calcio: gli si chiede di giocare 11 contro 11, ma non ne sono capaci». Quindi quasi solo partitine uno contro uno e con il portiere. Come in strada. Con campi vicini. Due tempi di tre minuti: chi vince va a destra, chi perde a sinistra. Così prima o poi tutti trovano avversari del proprio livello e si divertono ancora di più. Partite a 11 solo dall’Under 14.
Visualizza questo post su Instagram
EDUCAZIONE E LIBERTÀ. Alla base c’è anche il governo fiammingo, con l’introduzione di un’educazione motoria a scuola che permette di provare vari sport e «rimandare» la scelta definitiva. E chi poi sceglie il calcio deve divertirsi. Dunque, altro principio: libertà al calciatore. Di nuovo, come nel calcio di strada. L’allenatore osserva e guida, ma non dice mai «fai questo, fai quello»: così si coltivano giocatori creativi. Sempre contro degli avversari, mai nei «famigerati» 11 contro 0. Perché il calcio è uno sport in cui vanno prese decisioni, e il giovane calciatore deve imparare a prendere in autonomia quelle decisioni.
NIENTE CLASSIFICHE. Un altro punto chiave, difficilissimo da spiegare agli italiani (allenatori, dirigenti, genitori) è «vincere non conta». Non ci sono classifiche fino all’Under 14. Senza l’assillo del risultato, giocano tutti, anche perché in Belgio (ma anche in Italia) tutti i giocatori di una squadra devono entrare in campo. E poi grande attenzione ai «ritardatari», cioè chi sviluppa tardi il proprio talento: Lukaku a 12 anni era un bestione coi piedi quadrati, De Bruyne è entrato nelle nazionali giovanili solo a partire dall’Under 18. Quindi se necessario, spostare i meno dotati con quelli di un anno più piccoli, in un contesto meno impegnativo, dove magari il loro talento può uscire. Euro 2000 fu un punto di svolta anche per la Germania, il 1994 lo fu per la Francia. Se il flop dell’Italia in Sud Africa nel 2010 fosse stato «letto» meglio, forse ci saremmo risparmiati il 2014 e ancora di più la disastrosa esclusione del 2018. Che dite, non è ora di svegliarsi dall’incubo?
I PRINCIPI DI LAVORO
1.Il calciatore al centro. Protagonista è il calciatore, non l’allenatore o la squadra. A lui si adatta il contesto
2. Mini-partitine. Niente calcio a 11, ma uno contro uno più i portieri: tanti tocchi, tanti gol, divertimento
3. Educazione motoria. I ragazzini imparano le funzioni motorie basiche e provano tutti gli sport
4. Libertà. L’allenatore non ordina ma lascia libertà: così si sviluppa la creatività in campo
5. Giocare, giocare, giocare. Sempre giocare simulazioni della partita: così si impara a prendere decisioni
6. Vincere non conta. Fino all’Under 14 non ci sono classifiche. Senza l’assillo del risultato, tutti possono giocare
7. I ritardatari. C’è chi sviluppa più tardi il talento: se serve, che giochi con quelli di età inferiore