di Walter Veltroni (Corriere Dello Sport 21-10-2017)
Luca Marchegiani, come mai un bambino comincia a giocare da portiere invece che voler fare i gol?
«Giocavo tanto da solo da bambino, mi ricordo che nel cortile di casa mia calciavo il pallone contro il muro e poi lo paravo. Imitavo i servizi di “Novantesimo minuto” con una specie di telecronaca. Riproducevo gli highlights delle partite come si faceva una volta con le azioni : tiri e parate, tiri e gol. Fin da bambino mi buttavo a terra, paravo i tiri che mi facevo da solo. Poi un giorno, eravamo un gruppo di amici, siamo andati alla prima partita, tipo la “squadra di stoppa”, senza neanche un allenamento, e l’allenatore, il responsabile di questa squadretta, ha detto “Chi fa il portiere?”. Io ho alzato la mano e ho cominciato così. Non ho mai fatto un minuto di partita in un’altra posizione del campo. Ho sempre creduto che portieri si nasca: è una cosa che hai dentro, metterti lì in mezzo a quei pali. In quella posizione un po’ strana, che però dà tante soddisfazioni».
Un portiere può avere due modelli : Albertosi o Zoff, cioè cinema o teatro, piazzamento o tuffo. Lei è sempre stato uno da piazzamento?
«Il mio modello era Zoff. Da ragazzino ammiravo questo personaggio un po’ enigmatico. Ho vissuto a sedici anni il Mondiale dell’82 e Zoff era il mio mito. Silenzioso, professionale, perfetto. Poi con il tempo mi sono reso conto che io dovevo sfruttare quelle doti lì, non avevo un sico particolarmente esplosivo, non potevo fare tanto a damento sulle doti atletiche».
Qual è stata la parata più bella della storia del calcio per lei? Si ricordano i gol più belli, ma difficilmente si ricordano le parate più belle. A me viene in mente quella di Zoff alla fine di Italia Brasile, quando fermò la palla sulla linea. Le vengono in mente la parata più bella mai vista e la sua parata più bella?
«Per noi portieri della mia epoca c’è una parata che è considerata da tutti eccezionale, quella, al Mondiale del Messico, di Banks contro Pelé, anche per il protagonista. Purtroppo i portieri vivono un po’ di luce riflessa. Eccezion fatta per Buffon , che negli ultimi anni ha un po’ liberato il portiere da questa immagine. La parata è una reazione a qualcosa , non è un gesto attivo. Per questo fare una parata a Pelé è come fare una parata a Maradona: ha un valore superiore rispetto ad un Pinco Pallino qualsiasi. Per quanto riguarda una mia parata, io ricordo quella in una finale di Supercoppa europea: Manchester United-Lazio. Era un colpo di testa di Cole che sarebbe entrato in rete. Sono parate che non pensi di riuscire a fare, ma poi tutto funziona. Quella la ricordo con piacere. Io non ero un portiere da parate impossibili, ero un portiere da rendimento».
Quanto ha contato Lido Vieri nella sua formazione?
«Tantissimo. Io veramente gli ho voluto bene come ad una persona di famiglia. Perché non solo mi ha insegnato tanto, ma mi ha anche difeso tanto. In un momento in cui la mia carriera poteva prendere una piega o un’altra. Lui si è esposto per me, mi ha tutelato e io gli devo tantissimo».
Si ricorda il primo paio di guanti da portiere che ha avuto?
«Come no? Me li ha regalati mio zio per un Natale, scatenando anche un po’ di ilarità tra gli altri parenti. Era un paio di guanti Valsport, erano fatti di un materiale strano, tipo pelle, con il palmo ricoperto di puntini di plastica, come le racchette da ping pong. Quando io li ho portati la prima volta al campetto i miei amici mi hanno preso in giro, perché non si erano mai visti prima. Poi l’evoluzione del materiale è stata incredibile, adesso senza guanti non si potrebbe giocare».
Qual è la differenza tra giocare con i guanti e senza?
«La protezione delle mani, perlomeno per me, era fondamentale. E poi anche la presa, ormai i guanti sono materiali così evoluti che aiutano la tenuta sul pallone. C’erano tantissimi portieri che giocavano senza guanti, che venivano usati solo in momenti particolari, quando era particolarmente freddo, con palloni bagnati, quando bisognava proteggersi dal clima. Col campo asciutto e la giornata buona, Zoff giocava senza guanti. E di lui bisognava fidarsi».
I portieri in generale sono o saggi o pazzi. E’ un effetto della solitudine?
«Della responsabilità, secondo me. Il portiere ha un ruolo di grande responsabilità. O la si vive in maniera un po’ folle e diven- ta una forza, o la si vive in maniera estremamente razionale. Perché allora ti dà la possibilità di trasformare la tensione che la responsabilità crea in energia positiva. Se ti lasci travolgere dalla paura di sbagliare o dal peso che un tuo intervento buono o fatto male può avere sull’andamento della partita, non riesci a giocare bene».
Le è capitato di fare un errore dopo il quale è andato in bambola? Cioè non è più riuscito a recuperare?
«Non ne ho fatti tantissimi nella mia carriera, però purtroppo quelli che ho fatto la gente se li ricorda. Uno in Nazionale, a Cagliari, in una partita con la Svizzera che poi alla fine riuscimmo a pareggiare. Quella stupidaggine però ha un po’ compromesso, anzi ha completamente compromesso, la mia carriera in Nazionale. Erano i primi tempi in cui al portiere era vietato prendere retropassaggi con le mani, perciò eravamo tutti un po’ empirici nel modo di affrontare il tema, non è come adesso. Ho gestito male un retropassaggio, il giocatore ha letto il mio disagio e Chapuisat ha preso il pallone e ha fatto gol. Ma era la mia terza partita in Nazionale, perciò è chiaro che ha avuto un peso determinante sul mio prosieguo. Ricordo che ho finito la partita in maniera normale. Però ricordo anche di avere dei buchi nella mia memoria, cioè delle cose che ho fatto in quella partita me le sono ricordate dopo tempo, come se avessi avuto uno choc emotivo che mi aveva estraniato da quello che stavo facendo. Non è buono, perché al di là della difficoltà che un portiere può avere in un momento della partita, la cosa che ti insegnano da bambino è che l’errore, lo sbaglio, la di coltà, la situazione difficile te le devi mettere alle spalle velocemente perché altrimenti non puoi fare il portiere. Perché prima o poi un errore capita, uno sbaglio lo fai. Te lo devi mettere alle spalle, immediatamente».
Poi però lei ha fatto dei Mondiali del ’94 splendidi, ha giocato tre partite entrando dalla panchina…
«Ho avuto la fortuna di potermi riscattare, con quel Mondiale. In realtà dopo Cagliari non avevo più giocato: dopo quella partita Sacchi mi mise fuori e fece giocare Pagliuca. Poi ho avuto la possibilità di rientrare nei Mondiali del ’94 e ho fatto vedere quello che valevo. Io non ero un portiere che rubava l’occhio, però nel tempo garantivo un certo tipo di rendimento, con continuità. E poi avevo un modo di giocare che era apprezzato dai difensori perché li aiutavo, cercavo di uscire, cercavo di prendermi delle responsabilità che toglievano un po’ di peso anche a loro. Questa è stata la caratteristica che mi ha permesso di giocare ad alto livello»
Qual è stato l’allenatore più importante della sua vita?
«Io credo Mondonico. Con il quale avevo un rapporto molto turbolento, però è stato l’allenatore degli anni della mia affermazione. E secondo me è un allenatore che valorizza molto i giocatori che ha a disposizione e anche il portiere perché il suo modo di giocare, il suo modo di difendere, era molto curato. Lui era meticoloso nella preparazione della partita. Perciò difficilmente ti trovavi di fronte a situazioni inaspettate. Lui chiudeva abbastanza la difesa, lasciava spazio per il cross, dentro l’area era più difficile arrivare a tirare in maniera facile, perciò per un portiere come me era l’ideale. Mi ha dato la possibilità di impormi, pur essendo giovane. All’epoca non era facilissimo, perché è vero che non c’erano portieri stranieri e c’era più spazio, ma avevamo una serie di grandi numeri uno: Zenga, Giovanni Galli, Tacconi, anche portieri che non hanno giocato in Nazionale come Ferron, Cervone. Insomma, c’era concorrenza».
Lei adesso anche da commentatore giudica il calcio da portiere. Commenta con equilibrio, ragionevolezza, competenza, pacatezza. Un tempo si diceva che il calcio era come la società, non le sembra stia accadendo il contrario? Che la società stia diventando come il calcio? Cioè con quegli elementi di fanatismo, di isteria, di partito preso che sono tipici del calcio?
«Sì, è così. Probabilmente è anche frutto di una comunicazione molto più facile, immediata, semplificata. La gente prima si sentiva libera di dire nello stadio quello che non avrebbe detto fuori. Era una specie di porto franco. Tutti potevano commentare tutto, si poteva insultare l’arbitro e insegnare a giocatori e allenatori come fare il loro lavoro. Ora, con questa invasione di social, questa velocità nella comunicazione, questa possibilità di chiunque di dire la sua su tutto, lo stadio si è un po’ allargato alla vita di tutti i giorni. E’ vero, è assolutamente vero: la società si è fatta stadio».
Come vede la Lazio di quest’anno?
«La Lazio mi piace molto perché mi piace molto il suo allenatore. E’ una squadra che non inventa niente, ma mette le pedine al posto giusto. Io sono molto ammirato da chi fa le cose semplici ma con logica e con criterio. In questo giudizio positivo comprendo anche la società, perché c’è un asse proprietà, settore sportivo e allenatore in cui ognuno fa il suo ruolo e lo fa bene. E questa, secondo me, è una cosa che andrebbe presa ad esempio. Non che non ci siano altre squadre così. Ma la Lazio oggi eccelle».
Se lei dovesse spiegare ad un bambino cosa è il calcio cosa direbbe?
«E’ una cosa meravigliosa. Per me è stato lavoro, lo è ancora, perché io vivo ancora di calcio. Però è un gioco. Certo, io ormai comincio a seguire una partita per lavoro. Ma, sono sincero, mi diverto e dopo un po’ non riesco a vederlo in una maniera diversa rispetto a ciò che è: un gioco. Quello che spingeva un bambino di Jesi a calciare una palla contro un muro e poi a tu arsi per riprenderla. Da solo. Solo. Ma come tutti i bambini della terra».