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Julio Cesar: “Romario e Messi, triplete e lacrime è stato un sogno”

di Andrea Elefante (Gazzetta dello Sport)

IL PORTIERE CHE HA VINTO TUTTO CON L’INTER SABATO DICE ADDIO AL CALCIO: «VORREI TORNARE A MILANO PER VEDERE I NERAZZURRI IN CHAMPIONS: PRESTO, SPERO»

Sabato sera a Rio de Janeiro, mezzanotte a Milano. Seconda giornata del Brasileirão, la prima in casa del Flamengo, contro l’America Mineiro: il Maracanã si alzerà in piedi e Julio Cesar si siederà un’altra volta sulle ginocchia, come ha sempre fatto per schiacciare un’emozione, prima di chiudere l’ultima porta di una carriera lunga vent’anni abbondanti: «L’ultima partita, sì: sarà meraviglioso, ma finisce un pezzo della mia vita». E un altro pezzo dell’Inter del Triplete dice addio al calcio.

A Milano la chiamarono acchiappa sogni: si sta per prendere il più bello?
«Bello come questi venti anni: più di un sogno. Mai, neanche quando da ragazzino fantasticavo, avrei potuto immaginare una carriera così».

E la festa di sabato come la immagina?
«Un omaggio: non a me, ma a chi ha permesso che succedesse tutto questo. Il Flamengo, i suoi tifosi: mi hanno preso che ero un bambino e mi hanno accompagnato finché sono diventato un uomo, pronto per il calcio europeo. Sarò io che ringrazierò loro».

Piangerà, vero?
«Come sanno bene i tifosi dell’Inter, me ne frego delle telecamere e non mi sono mai vergognato di farlo: se mi verrà voglia piangerò, quindi credo proprio di sì».

Firmò con il Flamengo e promise: mi godrò ogni secondo di questi tre mesi.
«E me li sono goduti anche più di quello che immaginavo. Mi sono rivisto ragazzino del Flamengo, a 38 anni me ne sono sentiti addosso 17 come loro. Come Vinicius, che qualche tempo fa mi ha fatto stringere il cuore. Mi ha detto: “Ho chiesto di restare al Flamengo fino al termine di questa stagione anche perché qui ci sei tu, per imparare qualcos’altro da te”».

Apriamo parentesi: è tanto forte Vinicius, vero?
«Ha qualcosa di speciale e fa cose da fenomeno. Ma è tanto giovane, diamogli tempo».

Chiusa parentesi. Quando lei disse sì al Flamengo, sua moglie Susana pianse: «Gli uomini sono egoisti». Perdonato?
«Certo che sì: era solo triste perché saremmo stati lontani. Arriva giovedì assieme ai ragazzi: Cauet e Giulia. Mi dica lei come farò a non piangere».

Ha già deciso cosa farà dopo aver smesso?
«È possibile che rimanga nel calcio, ma non so “come”: è presto per parlare di futuro».

E allora parliamo del passato: riesce a dire qual è stata la parata più bella della sua carriera?
«Dite tutti quella su Messi nella semifinale di Champions a Barcellona e forse avete ragione voi. In quella partita, in quel momento, contro quell’avversario: una delle prime cose che insegnano a noi portieri è che una parata è bella solo se è importante. Quella fu importantissima».

L’attaccante più forte che ha affrontato?
«Romario. Inventava e non c’era rimedio: non sapevi mai come si sarebbe mosso, come avrebbe tirato».

La persona più importante?
«Flavio Tenius, l’allenatore dei portieri del settore giovanile del Flamengo: mi portò in prima squadra a 17 anni, fu il primo a credere in me».

L’emozione più grande?
«Non mi faccia sforzare: posso dirne tre?».

Certo che può.
«La prima, Campeonato Carioca 2001, Flamengo-Vasco: dovevamo vincere con due gol di scarto, Dejan Petkovic segnò il 3-1 su punizione a due minuti dalla fine. La seconda è ovviamente Madrid, la Champions: di sicuro il punto più alto della mia carriera. La terza, Mondiale 2014: i due rigori parati contro il Cile negli ottavi di finale».

E il momento più difficile è facile da dire, arrivò dieci giorni più tardi: Brasile-Germania 1-7. Ha sempre fatto fatica a parlare di quella partita.
«Perché faticai a capire cosa successe, ancora oggi non lo so bene. La Germania conosceva i nostri punti deboli, ma noi glieli mostrammo come un libro aperto. Giocammo male male male».

Chiuda gli occhi: cosa ricorda di quella notte?
«Ero in campo e pensavo: “Dai Julio, è solo un incubo: adesso ti svegli”. E poi Thiago Silva nell’intervallo: era già 5-0, provava a scuoterci. Ma in quello spogliatoio c’era un silenzio irreale, in realtà non stava parlando nessuno. Il calcio è così, è come la vita: non ti abbraccia sempre e a volte ti fa affrontare, anzi ti impone, cose inimmaginabili. È lì che devi dimostrare di essere una persona forte dentro».

Qualcosa del genere è appena successo a Buffon.
«Quel rigore lo puoi dare o non dare, ma se sei l’arbitro ad un certo punto puoi anche girarti dall’altra parte e non espellere Buffon. Detto questo: è stato Gigi a riconoscere che poteva esprimere gli stessi concetti in un altro modo. Ma quando hai tanta adrenalina in circolo, dici cose di cui poi ti puoi pentire».

Le è mai successo di arrabbiarsi così?
«Non in momenti così importanti. Dissi di tutto a Rocchi (Inter-Napoli 0-3, ottobre 2011) quando parai un rigore di Hamsik e lui non si accorse che Campagnaro entrò in area in netto anticipo per segnare sulla respinta. E me la presi molto con Rizzoli (Inter-Milan 4-2, maggio 2012) che mi fischiò un fallo da rigore su Boateng che non c’era. Infatti poi disse pubblicamente di aver sbagliato».

Ha detto: con Handanovic ho lasciato l’Inter in ottime mani.
«Io non mi sono mai sentito l’erede di Toldo, con cui ho avuto un rapporto bellissimo, e Handanovic non è stato il mio erede: lui è un grande portiere, ma l’Inter sarà sempre più importante di qualunque suo giocatore».

Quanto tornerà a Milano, per vederla a San Siro?
«Spero di tornare per una partita di Champions League. Dunque presto, spero».

Ce lo racconta un segreto di questi vent’anni?
«Ero arrivato all’Inter da poco: seconda di campionato, Palermo-Inter. Mancini in settimana mi fa: “Corini lo conosco bene, se sulle punizioni gli sistemi la barriera al contrario lo mettiamo in difficoltà”. Ero perplesso, ma gli dico: “Tu sei il boss, faccio come mi dici”. Il sabato, punizione di Corini e palla all’incrocio. Tre settimane dopo andiamo a Torino a giocare con la Juve. Mancini: “Con Nedved ho giocato, occhio che le punizioni le tira basse sul tuo palo”. Punizione di Nedved: sopra la barriera e 2-0. I giornalisti iniziano a martellare: che scarso Julio Cesar sulle punizioni. Alla ripresa prendo il Mancio da una parte: “Boss, facciamo così: se sbaglio, sbaglio io, ma d’ora in poi scelgo io. Ok?”».

E se potesse scegliere come essere ricordato, da domenica in poi?
«Con il mio sorriso, il sorriso di uno che ha cercato di essere amico di tutti. Un buon compagno di squadra. Anzi, ex compagno. Purtroppo».

L’IDENTIKIT
JULIO CESAR ESPINDOLA
NATO A DUQUE DE CAXIAS (BRA) IL 3 SETTEMBRE 1979
RUOLO PORTIERE
ALTEZZA 186 CM PESO 79 KG
Cresciuto nel Flamengo, ha giocato per sette stagioni nell’Inter, protagonista della squadra del Triplete. Poi Qpr, Toronto e Benfica. In carriera ha vinto 1 Champions, 1 Mondiale per Club, 5 scudetti, 3 Coppe Italia, 4 Supercoppe di Lega, 3 campionati portoghesi, 1 Coppa di Portogallo, 1 Coppa di Lega e 1 Supercoppa di Lega portoghesi. Nel Brasile 87 presenze tra 2004 e 2014, con 1 Coppa America e 2 Confederations Cup.

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