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Intervista a Sarti: “Yashin e Buffon sono i più grandi della storia”

Interessante iniziativa intrapresa dal Corriere dello sport: un’inchiesta sul ruolo che negli anni è cambiato più di tutti. Il secondo intervistato è Giuliano Sarti: “ è stai un innovatore del ruolo e oggi, con una lucidità impressionante, ci racconta della sua amicizia con Yashin e cosa significava ai suoi tempi fare il portiere, una categoria che divide in due specie: i geometrici e i reattivi. (Cliccka qui per la prima intervista a Buffon)

Ai miei tempi si parava a mani nude, Hamrin mi disse che in Svezia usavano i guanti: li comprai

Sarti, perché ha fatto il portiere?
Non lo so. So soltanto perché nata la mia storia. Per un colpo di fortuna. Vendevo semi salati, un giorno ero seduto sulla tribuna dello stadio di Cento durante l’allenamento della squadra, si avvicina un signore, sa che faceva il portiere della squadra del mio paese, San Martino, e mi chiede se voglio andare in porta. A 17 anni e due mesi ho fatto la mia prima partita ufficiale con l’arbitro, tre anni dopo giocavo nella Fiorentina.

Giuliano Sarti

Nessuna scuola, nessun istruttore.
Non esisteva il settore giovanile. Sono diventato portiere perché non avevo il fisico per giocare in altri ruoli. In quel periodo ho fatto anche dei provini nel Bologna insieme con i miei compagni. Prendevano tutti, tranne me. Ma avevano ragione, non crescevo. Nel tragitto da Bondeno, casa mia, a Firenze, sono cresciuto 15 cm. Tutti quelli della mia famiglia sono cresciuti ritardo.

Parava a mani nude. I tiri frizzavano?
Ho cominciato a mettere i guanti solo quando pioveva, erano guanti di lana e il cuoio del pallone faceva attrito con la lana. Devo ringraziare Hamrin, fu lui a darmi il consiglio. Quando arrivo a Firenze mi disse: “sai che Svezia portieri si mettono i guanti?”. Così andai all’Upim, in Piazza della Repubblica, è comprai un bel paio di guanti grigi di lana massiccia. Sì, grigi perché dovevano fare ben dante con la maglia.

Ha mai avuto un preparatore dei portieri?
Tutto per me, mai. Il mio primo preparatore è stato Arturo Maffei, medaglia di bronzo di salto in lungo nelle olimpiadi di Berlino ’36. Era il preparatore atletico della Fiorentina di Bernardini.

Qual è stato il primo gesto tecnico che ha imparato?
Ho capito subito il modo in cui dovevo stare in porta: doveva essere un modo geometrico. Non solo la faccia, come fanno adesso tanti portieri, ma tutto il corpo rivolto verso il tiratore. Dovevo essere sempre linea con la palla.

Oggi non è più così?
Oggi i portieri si dividono in due categorie, quelli della geometria e quelli della relatività. Buffon e Handanovic sono due portieri geometrici, mentre Reina è una via di mezzo fra il geometrico e reattivo.

Lo può spiegare meglio? Si alza, traccia un dito nell’aria una porta ideale indica un punto, anche questo ideale, dove c’è il pallone con il tiratore.
Il portiere si deve sempre girare dalla parta di chi sta per tirare e deve conservare sempre la distanza giusta dal tiratore. Quando la palla e a 2 m dal limite dell’area di rigore, se il portiere sta sulla linea di porta il pallone gli morirà nelle mano. Se invece fra la linea di porta e il dischetto del rigore, perché tanti dicono che così possono controllare meglio la situazione, si rischia che il pallone muoia oltre loro stessi, in rete.

E i reattivi?
Aggrediscono la palla, che invece va accolta.

Sul piano tecnico quanto è cambiato il suo ruolo?
Non molto. Il senso geometrico mi accomuna a Zoff e Buffon.

Qual è stato il primo problema che ha dovuto superare quando è arrivato a Firenze?
Un problema psicologico. Io ero una analfabeta, parlavo in dialetto e per me non era facile nemmeno prendere un tram per andare in centro. Mi hanno salvato i libri, violetti a migliaia. Prima erano tomi da 500 pagine, ora preferisco quelle di 120-130, perché mi dispiacerebbe lasciarne uno a metà. Non l’ho mai fatto in tutta la mia vita. Ho appena comprato l’ultimo di Sepulveda, “storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza”. Amo la lentezza.

Chi è stato il miglior portiere della sua epoca?
Jashin. Jashin e Buffon sono i più grandi portieri della storia del calcio. Sono diventato amico di Lev. L’avevo conosciuto nel ’55, quando venne giocare un’amichevole a Firenze con la Dinamo Mosca. Vincemmo uno a zero quella sera andammo a cena da Olivero, al piazzale Michelangelo. Parlavamo a gesti, ma ci si capiva. Poi l’ho incontrato di nuovo a Roma, con la nazionale. Quando ha smesso, ha lavorato per il ministero delle foreste dell’unione sovietica, è tornato a Coverciano e con un interprete abbiamo parlato a lungo. Avevamo le stesse idee suo ruolo. Sua moglie regalo a mia moglie Maria Pia una bottiglia a forma di Sputnik, dentro c’era un profumo, ne conserviamo ancora qualche goccia. L’ultima volta che l’ho visto è stato per l’addio al calcio di Zoff.

Su quale punto eravate d’accordo?
Sul modo di farsi dare la palla indietro. Un portiere non deve avvicinarsi al terzino per farsela dare, deve chiamarlo e farsi passare il pallone.

Ai suoi tempi, il portiere era tutto istinto. Adesso è più istinto o più preparazione?
La vocazione deve essere la stessa, altrimenti non c’è ragione perché un ragazzino vada in porta. Ma sulla preparazione avrei molto da dire, anzi, da ridire. Oggi troppe scuole calcio affidano a un ex terzino o a un ex centrocampista il compito di preparare i portieri e questo è un errore. Solo un ex portiere può migliorare un portiere.

C’è altro che non la convince nell’interpretazione attuale del ruolo?
Temo che anche a Coverciano, nel lavoro di un portiere, si dia troppo spazio alla reattività. Prima della partita, i portieri fanno un riscaldamento che non è un riscaldamento sono sempre in tuffo.

Un problema serio sono i palloni della nuova generazione.
Sì, è un bel problema. I palloni della mia epoca erano cuciti e la cucitura andare in profondità nel cuoio, così il vento faceva attrito. Adesso il materiale è tutto diverso, il pallone è plastificato, ma soprattutto non c’è più attrito. È come se fossero inguaia nati. Ricorda il concerto dell’aerodinamica: prima le auto non avevo nel muso schiacciato come adesso (di aerodinamica ne parlammo in occasione di Bayer Monaco-Juventus ndr). Inoltre è aumentata la forza dei giocatori, soprattutto nelle gambe. Quando partono, quei palloni vanno a 1000 e cambiano continuamente traiettoria.

Qual è il primo obiettivo di un portiere?
Tenere pulita la sua aria. Anche senza gridare, ma facendosi rispettare. I giovani devono guardare come fa a Buffon.

Sono aumentati i gol presi su punizione.
Rispetto i miei tempi è cambiato tutto. Adesso gli specialisti sono tanti e soprattutto la squadra che batte la punizione fa una sua barriera Per impedire al portiere di vedere la palla. Di solito, il mio collega riesce a scorgerla solo quando ha superato la barriera, però prima del tiro, a forza di chinarsi, spostarsi correre dal palo al centro della porta, ha consumato chissà quante energie nervose. A volte penso che ci sia odio nei confronti del portiere.

Anche la regola dell’espulsione per un fallo da rigore e contro il portiere.
Basterebbe l’ammonizione.

Buffon dice che ora lui esce meno sui piedi dell’attaccante perché ha paura del cartellino rosso.
Io vedo che va spesso sdraiato. Rispetta prima, ci va contro maturità.

Qualcuno sostiene che i portieri di oggi siano meno propensi a uscite alte.
È diventato complicato. Ai miei tempi ci allenavamo molto sulle uscite. Ho avuto anche la fortuna di trovare due allenatori bravi e competenti di portieri come Valcareggi e Heriberto Herrera. E Valcareggi, A Firenze, ha avuto la fortuna di trovare due portieri, Albertosi ed io, che la pensavamo come lui.

È giusto dire che ogni paese ha la sua scuola di portieri?
Sì, quello inglese per una scuola geometrica già negli anni 60. Io non lo sapevo, non c’era la tv, per questo sono stato il precursore in Italia. Quando arrivai a Firenze, si meravigliavano tutti del mio modo di stare importa, tanto che Viani disse: “Sarti o è bravo o è matto, perché quello non è il modo di stare in porta”. Ghezzi e Lorenzo Buffon si mettevano sulla linea di porta.

Sì immagini nel calcio di oggi. Come si sentirebbe?
Se dovessi giocare ora, non avrei difficoltà con le mani, il problema sarebbero i piedi: avevo due ciabatte. Mi salverebbe il rinvio con le mani, come Neur del Bayer che ha la stessa sensibilità che avevo io. A differenza sua, io rilanciavano a mani nude.

Il portiere è dentro la squadra?
Adesso, con le nuove regole, sì. Prima aspettava, ora non più.

È cambiato anche il look del numero uno.
Non ne vedo tanti di numeri uno sulle maglie dei portieri. Allora c’erano due maglie, una grigia e una nera, che usavamo poche volte. Una volta, nel ’64, a Glasgow, con -15° e una tramontana da impazzire andai in campo con i mutandoni rosa. Non ne avevo di un altro colore. Carosio disse per radio: “Sarti è sceso in campo con una calzabraga rosa”. Qualche tempo dopo incontrai Anzolin, che voleva prendermi in giro: “ma cosa ti sei messo a Glasgow?”. Gli risposi: “meglio i mutandoni che quei brutti peli che porti indosso tu”.

Cosa direbbe a un ragazzino che vuol fare il portiere?
Se ti piace, provaci.

Portieri anni 60

 

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