Interessante iniziativa intrapresa dal Corriere dello sport: un’inchiesta sul ruolo che negli anni è cambiato più di tutti. Luca Marchegiani ci introduce negli anni 90, che sono quelli della prima, vera, grande trasformazione: nel bel mezzo della carriera, questa generazione si ritrova con un problema in più, non può prendere con le mani il retropassaggio del compagno, ma deve rigiocare la palla con i piedi, e deve farlo bene e velocemente perché gli attaccanti ora partono in pressing. Marchegiani, oggi opinionista di Sky, è il personaggio ideale per spiegare il cambiamento.
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Io non mi sentivo pronto, Pagliuca invece lo sapeva fare. Ho cercato di lavorarci anche dopo aver sbattuto il muso ma quell’errore in Italia-Svizzera ha fissato i miei limiti
Marchegiani, perché ha fatto il portiere?
Perché ho cominciato a giocare da portiere e non ho mai smesso, perché portiere si nasce e perché quel giorno, quando, insieme con i miei primi compagni di squadra del Club Juve a Jesi il nostro allenatore ci chiese “chi vuole andare in porta?”, solo io alzai la mano. Avevo sette anni.
Cos’ha imparato subito?
A prendere gol. Il portiere, rispetto ai suoi compagni, deve avere delle caratteristiche psicologiche diverse, deve sfruttare l’errore, la sconfitta, il gol preso per migliorare. C’è ne sono tanti, di ragazzi, che smettono perché quando subiscono il gol sentono e vedono il compagno che li manda a quel paese, o l’altro che allarga le braccia o la altro ancora che si mette le mani nei capelli. Solo chi va avanti, farà il portiere.
A lei è mai venuta la voglia di smettere?
Da ragazzo mai. Da grande, invece, mi sarebbe piaciuto giocare in un altro ruolo, senza tutte quelle responsabilità.
Perché da grande?
Fino ai 32 anni ho sempre avuto molta fiducia nella possibilità di migliorare. Mi allenavo per questo e sapevo che potevo farcela. Ho cominciato a soffrire di ansia da prestazione quando ho capito che non era più possibile fare un passo avanti, Che l’allenamento poteva servire solo a conservare quello che già sapevo. A quell’età, la tensione che avvertivo prima di ogni partita era eccessiva.
I portieri del suo periodo, gli anni 90, hanno vissuto una modifica sostanziale: da un giorno all’altro non potevate più raccogliere con le mani il passaggio indietro di un compagno. Dovevate cominciare a giocare con i piedi.
Per me è stato un passaggio traumatico. Quella nuova regola non solo ha cambiato l’interpretazione del ruolo, ma anche gli allenamenti. Il portiere era coinvolto nel gioco della squadra e gli allenamenti erano diversi: dovevamo fare esercitazioni nuove e se aggiungevi qualcosa da una parte, dovevi toglierne da un’altra.
Perché per lei è stato un trauma?
Io non avevo la predisposizione a giocare con i piedi, come invece sapeva fare Pagliuca, con quel sinistro di 50 m. Spesso non calciavo nemmeno i rinvii, nel Torino li battevano Annoni e Cravero.
Come ha superato il… Trauma?
Ho cercato di lavorarci prima e dopo averci sbattuto il muso.
Già, Cagliari, Italia-Svizzera, qualificazioni al mondiale americano, 0-2 alla fine del primo tempo. Lei con la paura fra i piedi in area e Chapuisat che gliela porta via e fa gol. Finì 2-2, ma dalla partita successiva nella porta della nazionale c’era Pagliuca.
Non penso che quella giornata abbia condizionato la mia carriera, più semplicemente ha fissato i miei limiti. Non potevo essere il portiere della nazionale, per personalità o per ragioni tecniche poco importa. Ho ripreso a lavorare con maggiore energia, con più sacrificio più impegno. Solo così mi sentivo tranquillo.
Restiamo alla nazionale. Usa ’94: dopo l’espulsione di Pagliuca contro la Norvegia, lei tornò importa, fece 2 grandi partite e poi di nuovo in panchina. Senza aprire bocca, con stile. Ma come si vivono quei momenti?
In nazionale ho pagato l’incapacità di reggere la pressione dovevo avere più incoscienza.
Come Pagliuca?
Parlo di incoscienza sana. E comunque Pagliuca a quel mondiale era arrivato bene, era preparato e concentrato.
Sacchi prese la decisione giusta?
Penso dissi io avvertivo la fiducia della squadra, ma arrivo fece un discorso chiaro e onesto: “Pagliuca ha perso il posto perché ha fatto qualcosa per la squadra, non posso penalizzarlo per questo”. Ho condiviso quella scelta è solo più tardi, negli anni seguenti, mi sono reso conto di quello che avevo perso: un mondiale da titolare.
Come era il portiere degli anni ’90?
Da un punto di vista tecnico, per le parate, era più forte di quello di oggi. Il portiere del 2010, però, è più completo.
Eravate fisicamente diversi dai portieri attuali.
Molto diversi rispetto a oggi, ma anche fra noi stessi. Rossi era altissimo, Peruzzi era di roccia ma reattivo, io ero più magro e più veloce. In quel periodo, non essendoci una metodologia di base, si sceglieva il portiere per la testa. Adesso invece basta che un ragazzino abbia fisico e cominciano a provarlo come portiere. È un errore.
Oggi il portiere è costruito giorno per giorno, vent’anni fa era istinto.
Il portiere di adesso ha una grande fortuna: possiede tutti gli strumenti per migliorare e ottimizzare le sue qualità, ma deve fare tante cose più di noi, sia in allenamento che in partita. Per questo dico che oggi è più difficile stare in porta.
Si resta di più fra i pali, poche uscite e molte respinte. Lo dicono in molti ma è davvero così?
Si esce di meno, questo è vero. Ed è vero anche che il pallone, instabile nella sua traiettoria, è il problema principale. Ma anche ai miei tempi, quando pioveva il pallone era inzuppato d’acqua, arrivavano delle cannonate con palle di piombo. Si esce di meno perché oggi tutti gli allenatori anno 1000 soluzioni offensive mirate a un solo obiettivo: togliere lo spazio al portiere. Uno ti arriva davanti, un altro ti fa il blocco, un altro ancora si infila nello spazio libero.
Si blocca di meno.
Anche questo è vero. Accade per tre motivi. Il primo: i palloni sono più veloci e le traiettorie più instabili. Il secondo: il portiere è meno sicuro e soprattutto allena meno quel tipo di intervento. Il terzo: una respinta passa sempre per una grande parata, mentre una palla bloccata diventa una parata facile e questo, in un calcio così spettacolarizzato, al suo peso, anche il portiere vuole prendere mezzo punto in più nelle pagelle dei giornali.
C’è stata una novità tecnica in quest’ultimo periodo?
Mi ha colpito il modo di uscire dei portieri tedeschi. Noi abbiamo negli occhi Neur, ma anche gli altri escono sull’attaccante che ha la palla fra i piedi più o meno alla stessa maniera: escono col busto alto, con le gambe e le braccia larghe lo fanno anche i portieri svizzeri. Da noi esce così De Santis.
Nei portieri di oggi, c’è qualcuno che le ricorda il portiere dei suoi tempi?
Buffon. Il classico fuoriclasse che può appartenere a ogni epoca. E poi Mirante. Oggi il portiere è esuberante, non precisissimo ma molto forte fisicamente. Mirante mi piace perché è fra quelli che non si esaltano se fanno una bella parata. Lo confesso, mi rivedo un po’ in lui.
Il portiere più forte che lei ha conosciuto.
Ancora Buffon. La grandezza di Gigi sta in tutta la sua carriera: si è presentato a 17 anni da portiere straordinario e lo è ancora oggi. Durante questo periodo, ci sono stati dei portieri ai suoi livelli, come Toldo, come Peruzzi, come Dida, ma nessuno ha avuto la sua regolarità.
Nel mondo è sempre Gigi il numero uno?
Pure Neur è un grande portiere, anche se sbaglia di più.
Giuliano Sarti ha diviso i portieri in due categorie, i geometrici e i reattivi. E i relativi a Sarti non piacciono troppo.
Sono d’accordo con lui, anche perché pure io ero geometrico. Come si dice adesso, il portiere che attacca la palla non va sempre bene. Noi aspettavamo la palla. Un po’ per scherzo e un po’ sul serio, dicevo sempre che il pallone deve essere tuo amico, lo devi accogliere, non respingere, non prenderlo a cazzotti. Ci vorrebbe una via di mezzo fra il geometrico e il reattivo.
Lei è un ex grande portiere padre di un giovane portiere. Come si vive un rapporto del genere?
È difficilissimo. Gli vorrei dire un sacco di cose, ma non è quello il modo di vivere serenamente il rapporto fra padre e figlio. Tutto il mio sforzo è quello di non creargli aspettative, ma non è facile. Anche solo commentare un gol diventa complicato e poi lui mi chiede, gli piace confrontarsi. Da parte mia serve il massimo della sensibilità.
Qual è stata la sua parata?
Nella Supercoppa d’Europa, nella Lazio contro il Manchester United. Il colpo di testa di quella gigante di Andy Cole stava entrando in porta e io lo cozzi da lì. È una di quelle parate che dici “impossibile che non sia entrata”.
Del suo errore, invece, ne ha già parlato.
Già. Cagliari, Italia-Svizzera.
Cosa direbbe a un ragazzino per incoraggiarlo a fare il portiere?
Gli direi che è un ruolo divertente, che in allenamento si diverte più dei suoi compagni. Non serve incoraggiarlo, ma tranquillizzarlo. Oggi molti ragazzini smettono perché si sentono colpevoli dei gol che prendono. È un modo di pensare che va cambiato, in maniera decisa per i bambini, ma anche per i grandi. Ora i portieri rischiano meno perché vengono subito colpevolizzati è un portiere che non rischia perde il senso del proprio ruolo.