di Maurizio Crosetti (La Repubblica 26-09-2018)
Nove portieri della Serie A erano riserve lo scorso anno: nessuno è più titolare per sempre. Il calendario fitto e il gioco con i piedi hanno allargato le rose pure in questo ruolo.
Nel calcio mutante, il dodicesimo uomo non esiste più. Essere portiere di riserva è stata per decenni una scelta e insieme una condanna alla prigione della panchina, fine pena mai. Ma adesso è cambiato tutto, si gioca sempre (tre volte in otto giorni in questo turno di campionato stretto tra le Coppe) e servono tanti, troppi calciatori. Anche nel ruolo in teoria più rigido e meno intercambiabile, il portiere appunto, la titolarità è spesso astratta, non più un abito da indossare in eterno. Addirittura 9 portieri titolari in serie A erano riserve l’anno scorso. Stasera nella Juventus gioca Perin, dodicesimo dell’ex dodicesimo Szczesny. La catena della riserva liberata riguarda le grandi (la Juve, ma anche il Napoli con Ospina che era la riserva di Cech all’Arsenal), le medie (l’Atalanta si affida a Gollini, il Bologna a Skorupski che stava fuori alla Roma) e le medio/piccole (Sepe a Parma, Scuffet all’Udinese, Marchetti al Genoa, Gomis alla Spal, Terracciano all’Empoli). In porta c’è posto.
«Senza offesa, vedo un livellamento verso il basso». Michelangelo Rampulla è stato il dodicesimo della Juve dal ’92 al 2002 alle spalle di Peruzzi, Van der Sar e Buffon, ma è stato anche il primo portiere italiano a segnare un gol su azione quand’era alla Cremonese. «La tecnica ormai conta molto meno dei muscoli, la bella parata classica non si vede quasi più. I portieri sono diventati più calciatori perché usano moltissimo i piedi, e questo allarga le loro possibilità. E ai miei tempi quasi non esisteva il turnover». Come non smarrirsi sull’altalena tra campo e panchina? «Il nostro è un ruolo di testa, bisogna sentirsi titolari, pronti e in partita sempre. Ho ragionato così da quand’ero ragazzino. Diciamo che la fortuna dei miei colleghi di oggi è il calendario esteso: si gioca sempre, servono rose smisurate, ci sono club con un paio di squadre titolari e insomma c’è davvero posto per tutti».
Sembra ancora più lontano il tempo di Giancarlo Alessandrelli. La storica riserva di Zoff dal ’75 al ’79 si sorprende di essere ancora ricordato: «Incredibile, e dire che ho lasciato la Juventus quasi quarant’anni fa». Avere davanti una spietata leggenda come Dino, che alle riserve non cedeva neppure le amichevoli, non è stata però una frustrazione: «Perché mica ero matto, mica mi sentivo uguale a lui. Aspettavo il mio turno osservando la grandezza di un altro, anche se quel momento non arrivava mai. Boniperti mi diceva “stai tranquillo, tra un po’ Dino smette e toccherà a te”, invece è finita che ho smesso prima io a 35 anni, mentre il mio amico Dino è andato avanti fino a 41. Eppure ero forte e sapevo di esserlo, e la Juve era una specie di college inglese, una scuola di vita e distinzione. Allora però si giocava al massimo in tredici, era un calcio conservativo fatto di formazioni immutabili da imparare a memoria, c’erano il campionato, un po’ di Coppa Italia e la Coppa dei Campioni solo per i vincitori dello scudetto. Mica si giocava ogni tre giorni. Ogni portiere di riserva aveva pochissimo spazio e io meno ancora, perché Dino non mollava niente, era insuperabile e indistruttibile. Lo guardavo in allenamento, quale freddezza, quale perfezione, e mi dicevo: ma come faccio a giocare io? La gara impossibile cominciava e finiva dentro di me, che pure ci sapevo fare e avevo avuto la fortuna dell’incontro con i maestri: il leggendario Sentimenti IV e Giovanni Viola alla Juve, il grande Pizzaballa all’Atalanta. Avevo quasi trent’anni e Pizzaballa mi insegnava cose nuove: io lo ascoltavo con umiltà. Oggi basta avere 18 anni, un gran fisico e sei subito un fenomeno». Eppure, uscire dalla prigione della panchina non fu affatto una festa: «A un certo punto decisi di andarmene all’Atalanta dove sarei stato finalmente titolare. Che incredibile sciocchezza. Abbandonare la Juve fu come lasciare il paradiso».