di Francesco Saverio Intorcia (La Repubblica 14.09.2018)
Negli ultimi dieci anni una fuga massiccia dal calcio. Smettono di divertirsi già prima di essere adolescenti. La selezione si fa sul fisico e non sulla tecnica. Gli allenatori privilegiano i nati nei primi mesi dell’anno.
Negli ultimi dieci anni l’85% dei bambini che avevano iniziato a giocare a calcio vi hanno detto addio. Lo hanno fatto prima ancora di diventare adolescenti, forse attirati da altro, forse per le pressioni germogliate intorno a loro, forse più semplicemente perché avevano smesso di divertirsi. Se tra loro ci fosse un campione che non ammireremo, non lo sapremo mai. Certo restringere il bacino vuol dire ridurre la possibilità di scelta. Proprio mentre il gap con il resto d’Europa, lo dicono i risultati sportivi, continua ad allargarsi.
Le scorciatoie per vincere
Proprio il risultato sportivo è tra i motivi che finiscono per soffocare lo sviluppo. «Nella percezione collettiva, un vivaio che vince è un vivaio che va bene», spiega Mario Be- retta, che dopo aver allenato in Serie A è oggi responsabile del settore giovanile del Milan. «Perciò, da quando finisce la pre agonistica, diciamo dalla categoria Esordienti, tanti allenatori delle giovanili preferiscono percorrere scorciatoie per vincere le partite anziché formare calciatori. Il risultato è parte della cultura sportiva, ma l’obiettivo deve essere altro. Quando in una squadra c’è un ragazzo bravo, bisognerebbe provare a inserirlo nella categoria superiore, per costringerlo ad alzare l’asticella, ad affrontare situazioni più difficili. Invece viene tenuto dov’è perché fa vincere le partite. E il livello d’impegno si abbassa».
Lo sviluppo fisico
Tra le scorciatoie seguite in molti vivai, la scelta di privilegiare il fisico. Il terzino del Milan Davide Calabria, nelle nazionali giovanili azzurre, era spesso l’unico nato a dicembre. In Serie A i calciatori nati nell’ultimo mese dell’anno sono appena 29 contro i 65 nati a gennaio: meno della metà. Nelle giovanili le squadre si fanno per classi d’età: dirigenti e tecnici puntano così su chi è nato prima, e quindi è più pronto da un punto di vista fisico avendo quasi un anno più di chi è nato in autunno. E rinunciano ad aspettare lo sviluppo di un bimbo tecnicamente dotato ma meno strutturato. «Manca – continua Beretta – l’attitudine alla crescita individuale. Si privilegia il gioco, insegnando da subito come si sta in campo, ma si lascia poco spazio alla fantasia. Che non solo non viene allenata, ma rischia di essere limitata e nell’età della formazione è un guaio».
La “prigione” del vincolo
C’è poi una questione che chiama direttamente in causa le società. È il vincolo sportivo, che riguarda tutti gli sport ma che nel calcio si innesta a logiche di profitto che spesso condizionano le scelte dei club dilettantistici e il percorso agonistico di un ragazzo. Fino ai 14 anni, il legame tra atleta e squadra può essere solo annuale. Al compimento del 14° anno cambia tutto: ogni società può vincolare un ragazzino fino ai suoi 25 anni. In Europa il vincolo non esiste, lo hanno adottato soltanto Italia e Grecia. Molti genitori firmano in buona fede convinti di far il bene del figlio. Altri non hanno semplicemente idea di cosa stiano firmando. E ignorano il rischio di finire nel vortice dei ricatti. A quel punto, per liberare un ragazzo vincolato che volesse cambiare squadra per seguire degli amici o per trasferirsi in una realtà migliore, la squadra che ne detiene il cartellino chiede dei soldi. «Li chiede alla società che deve prenderlo ma soprattutto ai genitori», spiega Umberto Calcagno, vice presidente dell’Assocalciatori che anni fa guidò una campagna per abolire il vincolo. «Sono storture, queste, e portano frequentemente all’abbandono. E spesso le somme non sono figlie del reale valore del ragazzo, ma vengono richieste in base alle possibilità economiche delle famiglie». Liberarsi da una società dilettantistica diventa più complicato se questa fiuta la possibilità di accedere, tramite quel ragazzino, a premi di formazione.
I premi di formazione
Si tratta del corrispettivo economico che spetta alle società dilettantistiche al momento del passaggio del ragazzo ad un club professionistico. È previsto dall’articolo 99 della Norme organizzative interne della Figc e può andare da 16mila euro a un massimo di 93mila. Per alcuni club coprire la cifra è semplice, ma in molti casi rischia di diventare un ostacolo insuperabile: la conseguenza è che il ragazzo che potrebbe andare in Serie C, resta confinato in una società dilettantistica. O scappi all’estero, dove le federazioni quel vincolo non lo riconoscono affatto.